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In Carnia ogni famiglia ha un orto per la consumazione familiare.

A causa dell’altitudine, l’agricoltura è qui molto difficile e gli agricoltori di professione hanno piccoli appezzamenti e una produzione che non si concilia con l’economia di scala.

Per questo motivo, si è scelto di puntare, grazie anche alla cooperazione della Comunità di Montagna della Carnia, alle produzioni di nicchia, vero valore aggiunto dell’agroalimentare in Italia.

Quali sono le colture tipiche?

Ne elenchiamo alcune diffuse e i cui prodotti sono ampiamente utilizzati nella cucina tradizionale.

IL RADICCHIO DI MONTE

In botanica Cicerbita alpina, una pianta selvatica i cui germogli si possono raccogliere in alcuni areali del settore alpino,  soprattutto sulle Alpi e Prealpi carniche tra i 1000 e i 2200 m s.l.m., quando si sciolgono le nevi.

La specie predilige i versanti nord delle montagne dove c’è maggiore umidità, il ciclo vegetativo è strettamente legato all’andamento climatico, infatti inverni secchi e primavere eccessivamente calde provocano la veloce crescita della pianta e la precoce salita a seme che ne restringe notevolmente i periodi

di raccolta.
Non è facile da coltivare e negli ultimi anni la raccolta, un tempo praticata solo per autoconsumo, si è intensificata. Attraverso i progetti BioinnovErbe e FuturbioErbe si è trovato il sistema per poter coltivare la specie in alta quota e per ripristinarla laddove gli ecosistemi sono stati danneggiati.

Il fiore del radicchio di monte della Carnia

IL CAVOLO CAPPUCCIO DI COLLINA

Prende il nome da una frazione di Forni Avoltri in cui viene coltivato. Dal 2020 è presidio Slow Food.

  • La zona di produzione è situata fra i 1100 e i 1330 metri di quota, ai piedi dell’imponente Monte Cogliàns.
  • La coltivazione di questa varietà di cavolo cappuccio è favorita da un’elevata escursione termica notturna.
  • La coltivazione di questo ortaggio, che avviene su terreni terrazzati esposti a sud, ha rivestito da sempre una notevole importanza per la comunità: insieme a orzo e segale, il cjapût, nome dialettale della varietà, era infatti una delle poche specie coltivabili nell’area.
  • Il cavolo cappuccio di Collina ha rischiato di scomparire in favore di specie più resistenti ed è stato recuperato grazie ad un paziente lavoro di rinnovo delle sementi conservate da una famiglia.
  • Caratteristiche: varietà di cavolo cappuccio, caratterizzata da una testa molto compatta con una forma schiacciata di 20-30 cm di diametro per un peso di 1,5-2 kg. Le teste raccolte possono essere conservate per diverse settimane in locali freschi, lontani da fonti luminose, mantenendo inalterate le elevate caratteristiche qualitative.
Cavolo cappuccio Collina di Forni Avoltri presidio slowfood

LA FAVA DI SAURIS

fiori della fava di sauris

La comunità di Sauris (Zahre nella locale parlata germanica) fu fondata nel XIII secolo da famiglie provenienti dalla vicina Austria. Tra le piante alimentari che esse portarono dalla terra d’origine c’erano sicuramente le fave (poan). La varietà coltivata ancora oggi a Sauris è resistente al freddo e adatta alle alte quote, come dimostra la sua diffusione nella zona di provenienza dei Saurani (Carinzia, Tirolo orientale), in altre comunità regionali di lingua tedesca (come Sappada e la Val Canale) e nel Bellunese. A Sauris le fave vengono seminate a fine maggio e inizio giugno, facendo uso di un apposito grande rastrello di legno (poanseizar) per determinare la giusta distanza tra i semi e la profondità nel terreno, e raccolte a fine agosto e inizio settembre.

Dell’importanza della fava nell’economia e nella cultura saurane ci sono inoltre testimonianze linguistiche ed etnografiche. Oltre alla parola poane (fava), nel dialetto tedesco arcaico ancora parlato a Sauris rimane traccia del termine kheisn, che indicava le seccaiole su cui si stendevano i gambi dopo il raccolto e delle quali ci sono ancora testimonianze fotografiche dei primi anni del ’900. La ghiandaia si chiama poankreinke (cornacchia delle fave) e in una filastrocca si parla del poanstingl (gambo di fava). Nei modi di dire, una persona che non sa mantenere le confidenze viene paragonata a un poanraiter (il vaglio per le fave, la cui trama è più larga rispetto a quella per i cereali), mentre chi cerca di ascoltare di nascosto le conversazioni altrui è come un vokhe in poan (un maiale tra le fave). Le filatrici tenevano in bocca un paio di fave al fine di stimolare la salivazione per inumidire il filo; le fave tostate col sale venivano date in dono ai bambini nella questua augurale del primo dell’anno. Nella seconda metà del Novecento erano diventate una coltivazione marginale, relegata a qualche fila nell’orto di poche famiglie, che però hanno avuto il merito di conservarne il seme autoctono. Negli ultimi anni la fava è stata riscoperta ed è ora al centro di alcuni progetti. Le superfici coltivate crescono di anno in anno e i ristoratori hanno cominciato a riproporre le vecchie ricette e sperimentarne di nuove: dal surrogato del caffe, a minestre fino a farina per pane ed altri prodotti.

I FAGIOLI

Sono più di 30 le varietà di fagiolo – per lo più autoctone – censite in Carnia. Custodi di questo inestimabile patrimonio botanico sono in molti casi ortolani dediti a produzioni familiari o piccole aziende agricole, attività condotte con fatica sui terreni impervi di queste vallate.

Il fagiolo borlotto di Pesariis, frazione del comune di Prato Carnico nell’alta Val Pesarina in provincia di Udine, è una varietà locale rampicante di buona produttività ed ottime caratteristiche culinarie, mediamente tardiva, adatta per produzioni di granella fresca da sgrano e secca.

Il cesarin è un piccolo fagiolo rotondo e di colore uniforme verde-giallastro chiaro. Come dice anche il nome, il fagiolo è molto simile ad un pisello (in friulano cesarons).

Il fagiolo della Val Chiarsò è un fagiolo da granella dalla forma leggermente ovale e dal colore screziato o striato di rosso o viola. Chiamato anche semplicemente “borlotto Carnia”, è raccolto allo stadio secco, quando la maggior parte dei baccelli è ingiallita e l’umidità dei semi si aggira di solito intorno al 20%.

Il fagiolo plombin, detto anche “dal voglut” (in dialetto occhietto) per la decorazione che ha sul dorso, simile a un occhio, è caratterizzato da un ilo scuro. Dalle testimonianze raccolte nei comuni di Prato Carnico e di Arta risulta che i plombins sono coltivati da oltre 50 anni. Le persone residenti ad Arta fanno risalire la coltivazione a prima della II guerra mondiale. Progressivamente, però, a partire dai primi anni del dopoguerra, i fagioli plombins sono stati sostituiti dai borlotti, più produttivi.

Piantagione fagioli in carnia

LA RAPA DI VERZEGNIS

Raccolto rapa di verzegnis

È tradizionalmente coltivata dagli abitanti dell’omonimo paese sia come fonte di sostentamento umano ed animale che come fonte di reddito. Una curiosità è che gli abitanti del comune di Verzegnis in dialetto carnico sono chiamati Gnaùs ovvero rapa, fatto che rimarca l’importanza di questo vegetale nella storia e tradizione agricola regionale. Il nome stesso di Verzegnis potrebbe discendere dall’unione delle parole “verza” e “rape”.

La radice si presenta leggermente schiacciata con una colorazione violetta che interessa, in genere, larga parte dei tessuti. Il suo peso varia in funzione della fittezza d’impianto e può raggiungere gli 800 g. Si differenzia dal tipo più comune (detto tonda di Milano) per la forma e il colore nonché per un sapore più delicato che ricorda il ravanello. Il ciclo produttivo dalla semina alla raccolta richiede 90 gg. L’epoca di coltivazione dipende dal materiale riproduttivo utilizzato: a luglio per la semina diretta, il trapianto si esegue a fine luglio inizio agosto. La raccolta avviene tra settembre e ottobre.
La rapa di Verzegnis si consuma fresca, in minestre o nella preparazione di brovada.  In quest’ultimo caso spesso la vinaccia è sostituita da mele, più facilmente reperibili in loco. Ne risulta un prodotto con note aromatiche tipiche e particolarmente gradevoli.

La «Brovada» in Friuli Venezia Giulia è sempre stata un piatto povero nel 2009 il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali ha riconosciuto la denominazione di origine protetta “Brovada” (Gazzetta n.78 del 3 aprile 2009).

La rapa di Verzegnis può essere usata anche fresca nelle insalate, per minestre, zuppe o  come ingrediente per il ripieno di ravioli e pasta fresca.

IL MAIS

Fino alla metà del Novecento in Friuli Venezia Giulia venivano coltivate varietà autoimpollinanti di mais, distinte una dall’altra per la durata del ciclo produttivo. Erano presenti varietà precoci denominate ad esempio “quarantino” (quaranta giorni), “cinquantino” (cinquanta giorni),ed altre a ciclo medio tardivo come “maggengo” e “agostano”.

Queste varietà sono state poi soppiantante dalle varietà ibride americane più produttive, ma esigenti dal punto di vista nutrizionale e suscettibili a fitopatie.

Molte di queste varietà locali sono state salvate grazie all’opera congiunta di agricoltori e Enti di ricerca e sperimentazione che hanno raccolto e conservato questa agrobiodiversità coltivata.

Spostiamoci a Socchieve, dal latino “sub clivo”, sotto il colle.

Questo paesino, ai piedi delle Alpi Carniche è diventato terra di elezione di uno degli ingredienti base della cucina friulana. Qui viene infatti coltivata una varietà antica di mais dalla tipica colorazione rossa: la socchievina, riscoperta tra le sementi di famiglia da un agricoltore originario della zona: Fiorindo Mazzolini. Oggi è l’unico depositario del marchio “socchievina” che contraddistingue la farina a base di questa varietà autoctona di granturco che lui coltiva senza l’utilizzo di diserbanti ma con il solo impiego di concimi naturali.

mais

LE MELE

Mele autoctone della Carnia - Striato Dolce

Nel Friuli-Venezia Giulia la coltivazione del melo è documentata già nel periodo di dominazione romana, ma è tra la fine del ’700 e la metà dell’800 che la coltivazione di mele conosce un forte sviluppo, in particolare nelle aree collinari e montane. Tra le varietà coltivate alcune erano autoctone, altre importate da friulani emigrati per il mondo, che rientrando a casa portavano con sé marze o semi di specie che ritenevano in grado di dare buone produzioni. I nomi delle varietà derivavano da caratteristiche morfologiche dei frutti o della pianta (Ruggine dorata, Rosse Invernali, Blancon, Verdi), da aspetti relativi a maturazione, utilizzo o gusto delle varietà (rosse invernali), dal luogo in cui si trovavano le piante (Zeuka di Treppo, Giallo di Priuso) o dal nome di coloro che le hanno introdotte o che le possedevano (Pieri di Pradas).
Nel tempo la maggioranza di queste mele è stata soppiantata dalle varietà moderne lasciando da testimone solo alcune piante. Un grande lavoro di recupero è stato fatto nel corso degli ultimi decenni da più enti territoriali, grazie ai quali sono state recuperate ben 65 accessioni di melo autoctoni della Carnia.  Per alcune di queste è ripresa la coltivazione, le più conosciute sono: Striato dolce, Gialla di Priuso, Ruggine di Enemonzo, Rossa invernale, Dal Dolç.

Sono stati realizzati anche due campi catalogo con le accessioni recuperate: uno ad Enemonzo in località Pradas (Comunità di Montagna della Carnia e ERSA FVG) ed uno presso il vivaio forestale “Ponte Avons” (ERSA FVG).

Esistono tanti modi per gustare le mele, frutto tra i più consumati nell’alimentazione quotidiana. Dall’aceto di mele alla confettura, ai succhi, al sidro, la mela trova spazio in prodotti di diverso tipo che si prestano ora al condimento dei nostri piatti, ora a spuntini golosi o merende salutari.

Consumiamo ortaggi e legumi locali tutte le volte che è possibile scegliere, freschi o essiccati, così contribuiamo anche alla diversità nei campi, alla fertilità dei suoli e alla sostenibilità degli agricoltori più innovativi.

Ricordiamo infine che circa l’80% degli ortaggi consumati in Friuli Venezia Giulia è importato e che c’è spazio per il recupero e la valorizzazione di un mestiere essenziale per la salute e l’economia.